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SBARRE VIETATE NEL CARCERE PARADISO DI PIANOSA

Il Corriere della sera, 16 dicembre 2009

Sbarre vietate nel carcere paradiso di Pianosa.
Marocchini, senegalesi e italiani: sono i detenuti della prigione-modello più soft d'Italia

ISOLA DI PIANOSA - Sono le otto del mattino. Silenzio assoluto, brezza di grecale, solo il rumore della risacca nel paese disabitato in mezzo al mare. Rosario Rapicavoli, catanese cresciuto a Milano, ha 34 anni. Fra tre mesi uscirà dal carcere, ha finito di scontare 17 anni («ridotti a 11 con l’indulto e perché è caduta l’accusa di associazione di stampo mafioso»). Sta montando un’impalcatura davanti a una vecchia casa. Con lui Mustafà, 45 anni, marocchino; Hugo, 47 anni, sudamericano grande e grosso. Dirige i lavori il senegalese Ndiaje, 47 anni, fisico asciutto e due bambine («Una in Senegal, l’altra in Francia»). Quella casa la ristruttureranno loro, quattro dei sette detenuti che vivono liberi nel paradiso terrestre di Pianosa.

Il carcere paradiso di Pianosa

Pianosa - foto di Biancamaria Monticelli Pianosa - foto di Biancamaria Monticelli Pianosa - foto di Biancamaria Monticelli Pianosa - foto di Biancamaria Monticelli Pianosa - foto di Biancamaria Monticelli Pianosa - foto di Biancamaria Monticelli

A trecento metri, nel bar-ristorante della cooperativa “San Giacomo”, l’unico dell’isola, Luca, 40 anni viareggino, è dietro ai fornelli. Deve scontare tre anni. E’ il cuoco, sta preparando il pranzo. Angelo, 34 anni pugliese, apparecchia i tavoli: fa il cameriere e serve al bar. Lui deve scontare quattro anni. Alle 11 arriverà la barca dei turisti per la visita a uno dei sette gioielli del parco dell’arcipelago toscano. Massimo 250 persone, dalle 11 alle 17, sempre accompagnate dalle guide. Quest’isola è parco assoluto: divieto di pesca, immersione, ancoraggio, sosta, accesso e navigazione. Non si può fare il bagno (eccetto che a Cala San Giovanni, vicina al porto: duecento metri di spiaggia bianca e acqua trasparente). Non si può pernottare se non autorizzati, inesistenti le strutture alberghiere. Il macedone Miki, 47 anni, (17 dei quali passati nel carcere di Porto Azzurro) è in silenzio davanti al mare. Sta seguendo gli archeologi della Sovrintendenza della Toscana che stanno riportando alla luce due scheletri: un adulto e un bambino («Forse romani, ce lo dirà l’esame al carbonio» dice una ricercatrice dell’Università di Pisa). Miki li aiuta, quando non è con le briglie in mano a portare in giro per l’isola i turisti con la carrozza trainata dai cavalli. «Sono i bambini che ti ammazzano» dice lui che a febbraio tornerà uomo libero. «Ti fanno delle domande dure come pugni. I grandi girano intorno, non ti chiedono mai cosa hai fatto. Una bambina di 5 anni mi ha detto: ‘Perché sei in prigione?’. Le ho risposto: ‘Ho fatto cose gravi’. E lei: “Gravi gravi?’. Sono rimasto in silenzio. ‘Amore mio, cosa vuoi sapere? Sì, molto gravi. Non puoi immaginarti quanto. Rispetta gli altri e cerca di non sbagliare nella vita, come ho fatto io».

Miki, Rosario, Luca, Angelo, Mustafà, Hugo e Ndiaje sono i sette detenuti del carcere aperto di Pianosa. Un luogo fuori dal mondo. Un paese fantasma dove il tempo è scandito dai rintocchi della campana della chiesa di San Gaudenzio, affrescata agli inizi del ‘900 da un ergastolano che disegnò gli angeli con i volti dei bambini del paese. «I detenuti di Pianosa sono un caso unico in Italia – dice Sandro, assistente capo, 41 anni, uno dei due agenti dell’isola – sono in regime di articolo 21, una sorta di semilibertà: lavorano per 7 ore, poi possono tornare al Sembolello (vi fu rinchiuso anche Sandro Pertini il 13 novembre 1931). Si fanno da mangiare, hanno il cellulare. La sera devono rientrare entro le 22.00. Vivono senza sbarre in camere singole». Il Sembolello è una prigione che non c’è: la chiave è nella toppa della porta d’ingresso. Cucina grande, sale comuni, stanze aperte con bagno: più un albergo che un carcere. Chi arriva qui è stato scelto dalla direzione del penitenziario di Porto Azzurro dell’Elba per «ottimo comportamento e attitudine al lavoro» dice il direttore Carlo Mazzerbo. «Io credo al progetto del carcere aperto. Il nostro obiettivo è aumentare il numero dei detenuti sull’isola. Ci sono da ristrutturare immobili, gestire le strutture esistenti, lavorare la terra. Potremmo aprirla al turismo tutto l’anno. Potremmo sistemare 50-60 posti letto a costo zero». Idee condivise del direttore del parco, Mario Tozzi: «Sono d’accordo: 50-60 detenuti in articolo 21 sarebbero un numero ottimale. Quello cui sono fortemente contrario è il ritorno del 41 bis (il carcere duro per i mafiosi ndr). Sarebbe come mettere un penitenziario dentro gli Uffizi. Sono pronto a incatenarmi per questo».

Tozzi si stava incatenando il 5 novembre scorso. Per una notte il supercarcere è tornato a Pianosa. Il ministro della Giustizia Alfano e quello dell’Interno Maroni annunciarono: «Riporteremo i mafiosi a Pianosa e l’Asinara». Immediate le repliche del ministro dei Trasporti, il toscano Matteoli, e dell’Ambiente Prestigiacomo: «Assolutamente contrari. Sono due gioielli della natura da valorizzare». Si è rischiato lo scontro. Dopo il direttore del parco, si mobilitarono in tanti: i comuni dell’Elba, la regione Toscana, Wwf e Legambiente. Il giorno dopo la retromarcia di Alfano: «Non riaprirà il supercarcere». Ma l’ombra del 41bis continua a minacciare l’isola.

Il carcere dà e toglie la vita a Pianosa. Era il 1858 quando Leopoldo II d’Austria, granduca di Toscana, fondò la prima “colonia agricola-penale”. Dopo gli uomini delle caverne del Neolitico, dopo i romani (nella villa di Agrippa ci sono i resti dell’anfiteatro da 200 posti sul mare), dopo i primi cristiani in fuga intorno al III-IV secolo dalle persecuzioni di Diocleziano (sull’isola c’è un sistema di catacombe su due livelli, con 700 sepolture già scavate), dopo i pirati del feroce Dragut (1553) e dopo Napoleone, arrivarono i condannati destinati al lavoro dei campi. Colonia modello, auto-sussistente: animali, frutteto, orto, agricoltura e pastorizia. «Negli anni 1960-70 eravamo duemila tra detenuti e civili, un’economia perfetta – dice Carlo Barellini, l’unico residente dell’isola, nato qui con cinque fratelli 59 anni fa, nonno e padre agenti penitenziari – Poi arrivò il terremoto». Il terremoto fu il supercarcere: prima verso la fine degli anni ’70 vi vennero trasferiti i brigatisti, poi i mafiosi in regime di carcere duro (tra i tanti, Pippo Calò, Nitto Santapaola, Michele Greco, Giovanni Brusca, Nino Mangano e i fratelli Graviano). Fu creato un muro di un chilometro alto oltre dieci metri per dividere la zona dei carcerati da quella dei civili. L’isola si riempì di mafiosi (circa 800) e di poliziotti, carabinieri, pilotine ed elicotteri che presidiavano 24 ore su 24. Il supercarcere fu chiuso nell’agosto del ‘98 (c’è chi dice perché gestirlo costava troppo, chi perché era stato creato il parco e chi invece per le pressioni della mafia). L’isola si svuotò. Nel 1996 intanto era stato istituito il parco. Pianosa cambiò pelle: le case rimasero in piedi ma disabitate. Chiuse tutto: ufficio postale, biglietteria dei traghetti, negozio di alimentari. Via tutti, animali compresi: oggi anche i cani e i gatti sono scomparsi.

L’obiettivo del Parco è di valorizzare la natura e preservare Pianosa da ogni insediamento. «Chi vuole riaprirla – dice Tozzi – nasconde speculazioni. Sa in quanti hanno provato a farci complessi turistici? Siamo noi ad aver riaperto l’isola: ogni giorno 250 turisti per i tre mesi estivi. Se poi ci sono cento residenti di Campo dell’Elba che vengono ad abitare qui che problema c’è?». Sembra lo stesso sogno dell’Associazione per la difesa dell’isola di Pianosa onlus (650 iscritti). Ovvero «rivedere un giorno i panni stesi, i gerani nei vasi e i bambini che giocano in strada. Pianosa è sempre stata abitata e deve tornare a esserlo» dice Giuseppe Mazzei Braschi, il presidente.

Tutti vogliono avere l’ultima parola sull’isola. Il ministero della Giustizia (da cui dipendono le strutture carcerarie), il ministero dell’Ambiente (da cui dipende l’Ente Parco), l’agenzia del Demanio (proprietaria degli edifici dell’isola), la regione Toscana, la provincia di Livorno, il comune di Campo dell’Elba (di cui Pianosa è una frazione) e anche il Vaticano (che ha giurisdizione, oltre che sulla chiesa, sulle catacombe di cui Barellini è il custode). In attesa di decisioni, il microcosmo di Pianosa va avanti nella quotidianità sonnolenta e irreale dell’isola che non c’è: nei due-tre mesi estivi gli orari della giornata sono scanditi dai turisti. Quando arriva il freddo le presenze umane si diradano. Sono rimasti anche in tre d’inverno su un’isola di 10 km quadrati: due detenuti e una guardia. «Per l’ultimo dell’anno – dice Sandro, l’agente penitenziario – ho fatto un dolce a casa e l’ho mangiato con i detenuti al Sembolello. Abbiamo brindato insieme al nuovo anno».

Iacopo Gori

(Foto Biancamaria Monticelli)

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