La Nazione, 10 marzo 2010
Isole-carcere, un patrimonio storico dimenticato.
Un bel libro di Alfredo Gambardella racconta il mondo delle colonie penali nell'arcipelago toscano.
E' UN PROBLEMA nato con l'uomo, e che l'uomo non è ancora riuscito a risolvere in pieno. Cioè: se per far scontare il Peccato originale ad Adamo ed Eva Dio l'ebbe facile, cacciandoli dall'Eden, in Terra le cose sono sempre state assai più complicate, dovendo "ingabbiare" e non soltanto cacciare i colpevoli. E si scoprì che per quanto grandi fossero, le carceri non bastavano mai. Né tantomeno (lo scrissero già prima dell'epoca moderna fior di studiosi, senza scomodare il Beccaria) le carceri erano l'ideale per la rieducazione e la redenzione.
Senza contare il fatto che i carcerati vanno mantenuti, costano allo Stato, e in modo improduttivo.
Così 150 anni fa o giù di li (proprio quando nasceva questo giornale) si pensò di risolvere il problema con le "colonie penali all'aperto" in piccole isole della Toscana. Nel 1858 i primi "ospiti" inaugurarono Pianosa, per volere dei granduchi. Seguirono nel 1869 e nel 1873 Gorgona e Capraia, ormai del regno d'Italia.
Non fu, se vogliamo essere esatti, un'invenzione
italiana.
I paesi coloniali per eccellenza, Gran Bretagna e Francia, avevano da tempo inventato la comoda pratica di trasferire ergastolani & C. in Australia e nei possedimenti d'Oltremare (Guiana francese: ricordate la storia di Papillon?) dove venivano sfiniti tra lavori disumani e frustate. Da noi, nelle colonie penali delle isole, in confronto erano rose e fiori.
Ce ne racconta i dettagli il giovane e attento autore pratese Alfredo Gambardella nel bel libro Le colonie penali dell'arcipelago toscano (Ibiskos). Gambardella fornisce una documentazione impressionante su quello che è stato definito "un mondo alla fine del mondo". Il corposo volume risente dell'impostazione, essendo nato come tesi di laurea: ma non per questo risulta arido alla lettura o cavilloso nella documentazione.
Vi si traccia non solo la storia tecnica e burocratica delle tre colonie penali (di cui oggi sopravvive solo Gorgona) ma anche quella umana di chi vi fu ridotto, di chi ne fu responsabile, e anche di quella dolente scheggia di umanità che risultarono essere gli agenti di custodia (i "secondini") spesso più sacrificati e incompresi degli stessi detenuti, e i dirigenti apicali, dai direttori agli agronomi, dai medici agli assistenti sociali. Tra i quali - lo testimonia il cimiterino di Pianosa - non furono rari i suicidi.
OGGI DUE sono chiuse (Capraia da quasi vent'anni, Pianosa da circa la metà) ma dalle pagine dello studioso Gambardella emergono dubbi, sia pure velati, sull'opportunità di aver definitivamente dismesso e abbandonato alle rovine del tempo un patrimonio che forse, in chiave più moderna ed umana, avrebbe potuto ancora servire e insegnare.
Un patrimonio non solo storico che comunque da anni sta andando definitivamente in malora senza che ci sia il coraggio di definirne una scelta: di recupero, di restituzione alla natura, di turismo o quant'altro.
Antonio Fulvi