Quel che resta dell'Alcatraz italiana
A Pianosa, l'isola carcere che imprigionò Curcio e i boss mafiosi.
La Nazione, 29 novembre 2013
Ovunque la morte si porta via tutto. Qui, ancora di più. Qui si porta via perfino la memoria. Detenuti sepolti da altri detenuti, dimenticati perfino dai parenti che non li hanno rivoluti neppure da morti, e quindi poco importa se sulle croci di legno a segnare le loro tombe non c'è nessun nome. E se queste poi, sotto il peso del tempo, sono cadute a terra quasi a cercare le carezze del vento.
Il cimitero dei cronici di Pianosa è un'aiuola trasandata dell'aldilà.Un luogo mistico della dimenticanza, come in fondo lo è tutta l'isola.
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Sì, Pianosa, l'Alcatraz italiana, è davvero il luogo della dimenticanza. Sbarcare dal traghetto che arriva (mare permettendo) dall'Elba, dà l'impressione di aver viaggiato nella macchina del tempo. L'isola che custodì i brigatisti come Renato Curcio e poi i più feroci mafiosi nel regime di ferro del 41 bis, sembra oggi il set di un villaggio fantasma del West.
Case diroccate e fortini che si sbriciolano nel maestrale, insegne corrose di negozi che non apriranno più e grotteschi cartelli stradali che avvisano di rallentare ad auto che non ci sono in prossimità di una scuola che non c'è. Perfino i nomi delle vie, dedicati come in una via crucis laica alle vittime dei carnefici ospitati nel supercarcere (piazza Boris Giuliano, via don Pino Pugliesi, via Libero Grassi, via Ninni Cassarà...) sembrano un non sense.
Più che Toscana, Kabul.
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Pianosa è sempre stata diversa dal resto dell'arcipelago toscano. Un non luogo per anime smarrite fin da quando, nel 1858, il granduca Leopoldo II vi istituì la "Colonia penale agricola". Un'isola da sempre e per sempre carcere. Qui morì l'anarchico Passannante, l'attentatore di re Umberto. Qui fu recluso durante il fascismo Sandro Pertini. E da qui, dagli anni '80 in poi, sono passati tutti i più feroci mafiosi.
Il generale Dalla Chiesa ritenne infatti che il luogo fosse ideale per nascondere al mondo il peggio della mafieria. Così la struttura al centro dell'isola, la "diramazione Agrippa", fu ampliata con le celle d'isolamento.
Fu costruito un muro a delimitarne l'acceso dal mare e se un'imbarcazione entrava nel miglio marino si sparava. L'Alcatraz italiana, appunto.
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Solo che tutto questo nel 1998 terminò. Forse il risultato della trattativa fra Stato e mafia, portata avanti a suon di bombe e morti innocenti come quelli dei Georgofili di Firenze. Fatto sta che in quell'anno il 41 bis fu cancellato e il carcere di Pianosa chiuso. Da allora tutto è rimasto come congelato.
Il caseificio sbrecciato dove i detenuti sardi insegnavano a fare il pecorino, la stalla con i nomi delle 60 mucche scritti con il gessetto, sono ancora lì, accessibili ma inutilizzati, in una sorta di Pompei carceraria pietrificata non dalla lava ma da un decreto del governo.
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A fare la guardia alle strutture vuote oggi sono rimasti solo tre agenti penitenziari. Con loro, una dozzina di detenuti mandati dal vicino carcere di Porto Azzurro per i lavori di piccola manutenzione e a gestire il bar-ristorante e l'albergo da poco riaperto. Dieci camere a 50 euro a notte.
Perché il turismo, con grande fatica, sta provando a partire.
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Il carcere ha esercitato una forma involontaria di ambientalismo, lasciando i fondali e le scogliere inaccessibili per 150 anni. Oggi da questo punto di vita è un paradiso. Sarebbero ammessi 250 visitatori al giorno accompagnati da una guida, ma d'inverno in certe settimane non arriva nemmeno il traghetto della Toremar.
Anche le guardie per il cambio turno devono aspettare la settimana seguente. Amen.
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Così l'Alcatraz del Tirreno va avanti senza i riflettori del mondo addosso. L'unico divertimento per chi passa la notte qui è vedere "Pianosa Tv". Così chiamano l'affacciarsi nelle acque del porto mediceo, mentre centinaia di barracuda roteano attirati dalla luce del lampione superstite.
Pianosa, isola scollegata da ogni distanza: duemila anni fa Plinio il Vecchio la definì "ingannatrice dei naviganti" perché per la sua conformazione di notte non poteva essere avvistata in tempo dalle barche.
Com'è strana la storia. Duemila anni dopo, per motivi del tutto diversi, la sua condizione è sempre la stessa. Un luogo fuori dal tempo, ignorato da tutto e da tutti, perfino dal dolore e dalla pena.
L'isola della dimenticanza, appunto.
dall'inviato Stefano Cecchi